Quando si dice i casi della vita. Nel 2005 il mio primo viaggio in Giappone mi portò a girare per le più importanti città del Sol Levante, ma anche per le bellissime campagne e le coste oceaniche. In quel momento non sapevo quante volte sarei stato in grado di tornare, ma sapevo che non avevo ancora una idea precisa su come e su dove fosse prodotto il sake giapponese: ero quindi intenzionato ad approfondire. Come dire.. cercavo solo di non farmi mancare niente di indispensabile. Così la mia richiesta di andare a visitare una cantina tradizionale sebbene apparisse un po’ fuori dai canoni fu raccolta ed esaudita. Un cugino giapponese che abita a Shiga ci accolse a braccia aperte e, dopo una breve sosta ristoratrice, ci portò a visitare la mia prima cantina. Il luogo scelto era una cantina non molto vecchia – si fa per dire!- , aperta intorno al 1860 da un trisavolo del signor titolare che ci stava aspettando per condurci, lui personalmente, a fare la tanto desiderata visita. La struttura dall’esterno appariva dipinto di bianco sopra e nero vicino al terreno, un edificio in legno con le classiche linee giapponesi compreso il tetto grigio scuro a spiovente. Quando fummo dentro la prima cosa che mi colpì furono gli odori dolciastri di fermentazioni passate, la temperatura caldo umida e la luce soffusa dei pochi neon presenti nelle varie sale. Insomma, a me che provengo dalle terre del Chianti classico, la mente mi riportò in un baleno alle cantine toscane. Ed infatti, anche se qui c’era il legno alle pareti al posto dei mattoni e delle pietre, le poche luci al neon al posto delle gialle lampadine ad incandescenza, il tempio shinto al posto del Gallo nero e delle sposine, era l’atmosfera storicizzata che faceva nascere inevitabili parallelismi. Ci fu mostrato quindi come il riso viene lavato e molato, messo a riposo, di nuovo lavato, ammollato in acqua, cotto a vapore, disteso e diviso in due parti una parte per il koji e l’altra per la fase successiva, rimesso insieme, ammuffato e lievitato, aggiunto di acqua sorgiva, collocato a fermentare in grosse cisterne, insacchettato, pressato, filtrato, pastorizzato, imbottigliato et…. voilà signori e signore: il sake è servito. Ok ammetto che il procedimento è un poco più lungo e preciso..ma giusto per rendere l’idea e dare un ritmo… Comunque, sebbene l’ospitalità della cantina prevedesse la degustazione finale dei vari sake prodotti, non credo che avessero previsto che io gli chiedessi anche qualcos’altro…. Sapevo che cosa fosse il mosto, lo avevo visto e toccato con mano, ma non avevo mai visto la mistura primordiale che porta al sake: volli salire sullo scaleo per ispezionare le cisterne dove stava il riso in ammollo a fermentare. Sembra una specie di enorme risolatte . La seconda richiesta sorse spontanea: durante la visita, mi fu presentata la pressa antica che da tempo immemore veniva utilizzata per spremere i sacchi di cotone pieni di riso fermentato (moromi) e farne uscire il primo sake: bè basta guardare la foto qua sotto, non mi sono fatto mancare l’assaggio di questo sake che pur non avendo ancora finito il suo viaggio, si lasciava bere…
Ciao,
sono vostra amica …. penso che sua moglie conoscermi bene…
abito in Tokyo.
allola, conosci che c’e il museo del sake in Nagano?
guarda sotto Homepage…
www2.plala.or.jp/sake-haku/
ciao,
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