La storia del Nihonshu. Parte seconda.

Museo del Sake di Kyoto. Lavorazione del riso.

Museo del Sake di Kyoto. Lavorazione del riso.

Nel 1425 nella sola prefettura di Kyoto si contavano ben 342 cantine autorizzate alla produzione di sake. Tra il 1400 ed il 1600 con il graduale declino della produzione di sake da parte dei templi, sorsero e si svilupparono nelle diverse zone rurali del Giappone numerose cantine private a conduzione familiare. E’ nel lungo periodo Edo (1603-1868) che la produzione di sake giapponese conosce il consolidarsi di alcuni passaggi fondamentali nella produzione che si sono mantenuti fino ai tempi moderni (kanzukuri, hi-ire, sandan jikomi e hashira shochu). Innanzitutto, il rispetto dello kanzukuri ovvero della regola per cui il sake veniva, allora come oggi, messo in produzione nei mesi invernali per due importanti ragioni. Le basse temperature invernali garantivano e garantiscono migliori condizioni ambientali nelle varie fase della lavorazione del riso. Oltre a ciò, si voleva dare un ordine di tipo sociale. In quell’epoca, infatti, era sicuramente disponibile una maggior quantità di manodopera stagionale rappresentata dai contadini che nei mesi freddi erano in pratica disoccuppati. Lo Hi-ire, ovvero quello che noi conosciamo con il termine di pastorizzazione, fu un’altra fondamentale conquista di questo periodo. Prima della scoperta di Pasteur, i giapponesi a conclusione della lavorazione del sake erano già soliti portarlo per un breve lasso di tempo alla temperatura di 50-60 gradi celsius. Questa procedura serviva per evitare la formazione di batteri nocivi all’interno del sake oltre che a fermarne il processo enzimatico di trasformazione che se protratto avrebbe viziato la produzione. Altro passaggio che venne stabilito in questo periodo e da allora rispettato fu il Sandan Jikomi che letteralmente significa “tre fasi di fermentazione” e sta ad indicare il consolidamento della pratica di aggiungere acqua, riso e koji per tre volte separate e consecutive per continuare ad alimentare i processi microbiologici che prendono parte e costituiscono il processo della fermentazione. Durante il periodo Edo, poi, prese campo la possibilità di aggiungere al moromi, cioè al riso in fermentazione, dell’alcol distillato (shochu) derivante da cereali al fine di evitare che lo stesso venisse a deteriorarsi da una eccessiva carica batterica proveniente dall’ambiente circostante. Bisogna tenere presente come l’intera catena di lavorazione del sake fosse allora svolta in assenza dei moderni mezzi di misurazione e di analisi dei giorni nostri. D’altro canto si deve considerare che l’impiego di materie prime quali riso, muffe e lieviti dovevano essere mantenute e preservate durante tutta la fermentazione in modo da non andare a pregiudicare quel delicato equilibrio che avrebbe dovuto portare alla maturazione in sake. L’aggiunta di alcol distillato rappresentava, dunque, un utile strumento di difesa rispetto ad eventuali esposizioni batteriche da cui poteva essere attaccato il sake in via di formazione, facendo degenerare la fermentazione fino ad arrivare alla sua completa alterazione con conseguente -ingente- perdita economica da parte delle cantine.

In questo periodo, inoltre, le cantine andarono a strutturare la propria gerarchia interna intorno alla figura chiave del Toji ovvero l’equivalente dell’enologo moderno. Il Toji era supportato dai suoi collaboratori -primo fra tutti il responsabile degli operai (o kashira)-, ed organizzava sotto la sua unica responsabilità l’intero processo stabilendo non solo i tempi e gli accorgimenti da adottare durante tutta la produzione, ma, anche, le diverse proprietà e caratteristiche che il sake prodotto avrebbe dovuto mantenere ed esprimere. Ci si affidava, quindi, all’unico responsabile delle fermentazioni in atto, il Toji, che, grazie alla sua esperienza, sensibilità ed attenzione, era chiamato a predisporre tutto affinché il sake non deteriorasse e la produzione fosse salva e di buona qualità. L’ultima conquista da annoverare nel periodo preso in considerazione è il definitivo riconoscimento delle qualità minerali dell’acqua sorgiva utilizzata per il sake come materia prima per eccellenza al pari del riso. La leggenda vuole che la scoperta sia da attribuire a Tazaemon Yamamura, proprietario di due storiche cantine collocate in  zone differenti ed agli antipodi della città di Kobe, una a Uozaki e l’altra a Nishinomiya. Volendo, infatti, comprendere per quale ragione la produzione della cantina di Nishinomia fosse migliore di quella di Uozaki, nonostante la vicinanza geografica e le stesse materie prime, Tazaemon cominciò a cercare la strada per replicare la qualità della prima nella seconda. Dopo alcuni tentativi andati a vuoto, Tazaemon provò a scambiare gli addetti delle due cantine per verificare se la differenza potesse derivare dall’esperienza delle persone impiegate nella produzione, ma, invero, non raggiunse il risultato sperato. Escluse via via tutte le variabili, decise quindi di trasportare l’acqua sorgiva di Nishinomia a Uozaki. Tazaemon ottenne finalmente un sake di ottima qualità e proclamò la superiorità di quell’acqua sorgiva, chiamata Miyamizu,  ponendola alla base della sua produzione in entrambe le cantine e cominciandola a vendere ad altre cantine. L’acqua conteneva in effetti un basso tenore di ferro ed elevati contenuti di minerali altri quali potassio e fosforo derivati, composizione questa che rappresentava (e rappresenta!) un humus ideale per l’attività enzimatica nella fermentazione e ancora oggi una premessa fondamentale e desiderabile per un ottimo sake.

La storia del Nihonshu. Parte prima.

Museo del Sake di Kyoto. Lavorazione del riso.

Museo del Sake di Kyoto. Lavorazione del riso.

La lunga storia del sake giapponese vanta origini secolari, anzi millenarie. Le origini del nihonshu, infatti, devono necessariamente ricondursi all’introduzione in Giappone del riso dalla Cina avvenuta sul finire del periodo Jomon in una data imprecisata tra il 1.000 ed il 500 a.c.. Nel successivo periodo Yayoi (300 a.c.-300 d.c.) venne poi consolidata la coltivazione del riso con la sommersione degli appezzamenti predisposti alla semina. Questa tecnica, importata anch’essa dal continente, determinò un incremento di richiesta di forza lavoro sia per la preparazione dei terreni che per la coltivazione e la raccolta del riso. Le popolazioni rurali  cominciarono, quindi, ad organizzarsi in piccoli villaggi ed il nomadismo venne abbandonato in favore della stanzialità, rappresentando questo il primo momento di organizzazione socio-politica del Giappone.”Attorno a questa nuova attività, destinata a divenire dominante nell’economia dell’arcipelago, prenderà forma un modello economico-sociale, una tradizione cultuale e rituale, un corredo spirituale, nonché una modalità di percezione del tempo scandita dalla ciclicità delle stagioni, destinati ad affermarsi nelle isole giapponesi parallelamente alla diffusione della coltivazione del riso.”(Caroli e Gatti, Storia del Giappone).  Il riso divenne, quindi, gradualmente il primo alimento di sostentamento della popolazione e fulcro della catena alimentare della popolazione giapponese, ma anche misura della vita quotidiana e della richezza sociale. Sul fronte della bevande alcoliche, come riporta un antico testo cinese, il Gishiwajinden, già nel terzo secolo, un certo tipo di bevanda fermentata ricavata dal riso veniva utilizzata per le cerimonie funebri. D’altro canto, l’archetipo del sake giapponese, il kuchi-kami sake, viene citato per la prima volta in un testo chiamato Ohsumikoku Fudoki che descrive come la fermentazione del riso alla base del processo di produzione del sake fosse inizialmente provocata dalla masticazione e successiva espulsione di questo riso “masticato” in un recipiente o vaso di terracotta. Vi sono evidenze secondo cui questo sistema venisse utilizzato già in precedenza all’arrivo del riso per ottenere la fermentazione alcolica da altre materie prime quali le castagne e altri cereali autoctoni. Gli enzimi della saliva venivano usati per trasformare gli amidi presenti nel riso in zuccheri, in modo tale da poter creare il terreno fertile da cui far partire la fermentazione tramite il lavoro dei lieviti. La bevanda alcolica così ottenuta veniva usata o come medicina o nelle cerimonie religiose ed era intesa come un tramite per entrare in contatto  con le divinità. Nel periodo Kofun (300 d.c. – 700 d.c.)  il sake viva spesso offerto durante i riti religiosi alle divinità per auspicare buoni raccolti o come dono per l’imperatore da parte dei sudditi, inserito in un cerimoniale ben preciso. Il nome di questo sake, detto Doburoku, si compone di due ideogrammi (torba e alcol) ed indica come questo non fosse filtrato, bensì torbido, risultando essere come una specie di poltiglia fermentata. In realtà, per l’imperatore ed i dignitari di corte era riservato un particolare tipo di sake più pregiato la cui lavorazione prevedeva, tralatro, il filtraggio ottenendone una bevanda meno grezza, più delicatamente acida. Tra il 710 d.c. ed il 784 d.c. (periodo Nara) nel processo di produzione del sake venne introdotto l’utilizzo di un microrganismo, una muffa (aspergillus oryzae), per innescare la saccarificazione del riso e permettere la successiva fermentazione. A dire il vero, non è ancor oggi chiaro se questo metodo sia stato importato dalla Cina dove lo stesso meccanismo era già utilizzato da tempo per la preparazione di alcuni generi alimentari (quali ad esempio il tofu o la salsa di soia), oppure se questo abbinamento sia stato creato in Giappone. Comunque sia, in entrambi i casi, è con l’introduzione di questa innovazione che il sake giapponese comincia ad avvicinarsi a come lo conosciamo oggi. A partire dal periodo Heian, il sake cominciò gradualmente a diffondersi come bevanda popolare in concomitanza con il rapido svilupparsi della produzione da parte dei monaci buddisti e shinto che già dal periodo precedente avevano cominciato ad essere i detentori della produzione presso i loro templi. Questi crearono per primi un particolare tipo di sake che può definirsi il prototipo dell’attuale: da una parte il morohaku ottenuto completamente da riso pulito e raffinato e dall’altra il katahaku in cui venivano  mescolati riso lavorato con il riso non raffinato di cui si componeva il kojimai (la parte di riso trattata con l’aspergillus oryzae per la preparazione alla fermentazione). Tra il 1185 e la prima meta del XIII secolo la produzione e la commercializzazione di sake, così come l’abitudine di bere crebbero tanto che nel 1252 si dovette procedere a limitarne e regolarne il consumo per evitare il degenerare in un problema sociale. Fu solo ottanta anni dopo che si procedette ad incoraggiare nuovamente la produzione e questo perché la tassazione sulle bevande alcoliche rappresentava una importante fonte di reddito per lo Stato.