La lunga storia del sake giapponese vanta origini secolari, anzi millenarie. Le origini del nihonshu, infatti, devono necessariamente ricondursi all’introduzione in Giappone del riso dalla Cina avvenuta sul finire del periodo Jomon in una data imprecisata tra il 1.000 ed il 500 a.c.. Nel successivo periodo Yayoi (300 a.c.-300 d.c.) venne poi consolidata la coltivazione del riso con la sommersione degli appezzamenti predisposti alla semina. Questa tecnica, importata anch’essa dal continente, determinò un incremento di richiesta di forza lavoro sia per la preparazione dei terreni che per la coltivazione e la raccolta del riso. Le popolazioni rurali cominciarono, quindi, ad organizzarsi in piccoli villaggi ed il nomadismo venne abbandonato in favore della stanzialità, rappresentando questo il primo momento di organizzazione socio-politica del Giappone.”Attorno a questa nuova attività, destinata a divenire dominante nell’economia dell’arcipelago, prenderà forma un modello economico-sociale, una tradizione cultuale e rituale, un corredo spirituale, nonché una modalità di percezione del tempo scandita dalla ciclicità delle stagioni, destinati ad affermarsi nelle isole giapponesi parallelamente alla diffusione della coltivazione del riso.”(Caroli e Gatti, Storia del Giappone). Il riso divenne, quindi, gradualmente il primo alimento di sostentamento della popolazione e fulcro della catena alimentare della popolazione giapponese, ma anche misura della vita quotidiana e della richezza sociale. Sul fronte della bevande alcoliche, come riporta un antico testo cinese, il Gishiwajinden, già nel terzo secolo, un certo tipo di bevanda fermentata ricavata dal riso veniva utilizzata per le cerimonie funebri. D’altro canto, l’archetipo del sake giapponese, il kuchi-kami sake, viene citato per la prima volta in un testo chiamato Ohsumikoku Fudoki che descrive come la fermentazione del riso alla base del processo di produzione del sake fosse inizialmente provocata dalla masticazione e successiva espulsione di questo riso “masticato” in un recipiente o vaso di terracotta. Vi sono evidenze secondo cui questo sistema venisse utilizzato già in precedenza all’arrivo del riso per ottenere la fermentazione alcolica da altre materie prime quali le castagne e altri cereali autoctoni. Gli enzimi della saliva venivano usati per trasformare gli amidi presenti nel riso in zuccheri, in modo tale da poter creare il terreno fertile da cui far partire la fermentazione tramite il lavoro dei lieviti. La bevanda alcolica così ottenuta veniva usata o come medicina o nelle cerimonie religiose ed era intesa come un tramite per entrare in contatto con le divinità. Nel periodo Kofun (300 d.c. – 700 d.c.) il sake viva spesso offerto durante i riti religiosi alle divinità per auspicare buoni raccolti o come dono per l’imperatore da parte dei sudditi, inserito in un cerimoniale ben preciso. Il nome di questo sake, detto Doburoku, si compone di due ideogrammi (torba e alcol) ed indica come questo non fosse filtrato, bensì torbido, risultando essere come una specie di poltiglia fermentata. In realtà, per l’imperatore ed i dignitari di corte era riservato un particolare tipo di sake più pregiato la cui lavorazione prevedeva, tralatro, il filtraggio ottenendone una bevanda meno grezza, più delicatamente acida. Tra il 710 d.c. ed il 784 d.c. (periodo Nara) nel processo di produzione del sake venne introdotto l’utilizzo di un microrganismo, una muffa (aspergillus oryzae), per innescare la saccarificazione del riso e permettere la successiva fermentazione. A dire il vero, non è ancor oggi chiaro se questo metodo sia stato importato dalla Cina dove lo stesso meccanismo era già utilizzato da tempo per la preparazione di alcuni generi alimentari (quali ad esempio il tofu o la salsa di soia), oppure se questo abbinamento sia stato creato in Giappone. Comunque sia, in entrambi i casi, è con l’introduzione di questa innovazione che il sake giapponese comincia ad avvicinarsi a come lo conosciamo oggi. A partire dal periodo Heian, il sake cominciò gradualmente a diffondersi come bevanda popolare in concomitanza con il rapido svilupparsi della produzione da parte dei monaci buddisti e shinto che già dal periodo precedente avevano cominciato ad essere i detentori della produzione presso i loro templi. Questi crearono per primi un particolare tipo di sake che può definirsi il prototipo dell’attuale: da una parte il morohaku ottenuto completamente da riso pulito e raffinato e dall’altra il katahaku in cui venivano mescolati riso lavorato con il riso non raffinato di cui si componeva il kojimai (la parte di riso trattata con l’aspergillus oryzae per la preparazione alla fermentazione). Tra il 1185 e la prima meta del XIII secolo la produzione e la commercializzazione di sake, così come l’abitudine di bere crebbero tanto che nel 1252 si dovette procedere a limitarne e regolarne il consumo per evitare il degenerare in un problema sociale. Fu solo ottanta anni dopo che si procedette ad incoraggiare nuovamente la produzione e questo perché la tassazione sulle bevande alcoliche rappresentava una importante fonte di reddito per lo Stato.