Bene, ora, prima di approfondire e scendere nel vivo del sake giapponese conviene riepilogare quanto ci siamo detti. Innanzitutto, abbiamo visto come la storia del nihonshu sia lunga e millenaria ed abbia origine con l’introduzione del riso in Giappone fino ad arrivare ai giorni nostri passando dal monopolio dei monaci buddisti alla fabbricazione artigianale e alla successiva diffusione commerciale. Tutte tappe che si sono distinte per i numerosi progressi nella conoscenza delle proprietà delle materie prime coinvolte (riso, acqua sorgiva e lieviti fra tutte) da una parte, e per le innovazioni tecnologiche attinenti alla produzione dall’altra. Abbiamo, quindi, preso in considerazione i due ingredienti principali, acqua e riso, nelle loro caratteristiche e composizioni chimiche e fisiche. In sintesi, il riso (sakamai) designato per il nihonshu rappresenta solo il 5% di quello coltivato e, pur nelle diverse varietà autoctone, se le sue caratteristiche rispettano uno specifico disciplinare (lo shuzo kotekimai) porterà a produrre un nihonshu più pregiato. Le sakagura hanno inoltre una costante: al loro interno si trova un pozzo oppure sono situate in prossimità di una sorgente. E questo per potersi aggiudicare l’approvigionamento di un’acqua di prima qualità per tutto il ciclo produttivo. Abbiamo altresì detto come le sakagura storiche siano diventate depositarie e custodi di tradizioni e coltivazioni delle micro realtà territoriali in cui insistono. Bene, adesso, facciamo un passo avanti ed entriamo nella sakagura e vediamo come si produce il nihonshu.

Sacchi di riso in attesa di lavorazione.
Il primo step prevede la programmazione ovvero la scelta del tipo di nihonshu e contemporaneamente del tipo (o dei tipi) di riso e relative quantità. A sua volta viene deciso il grado di raffinazione (seimaibuai) che ogni partita di riso deve raggiungere in relazione alla quantità ed alla qualità di nihonshu che si vuole ottenere. Ma… al tempo! Dunque, il riso appena raccolto appare di colore marrone e contiene proteine e lipidi in eccesso se si guarda a quanto necessario al nihonshu. Viene, quindi, portato presso la cantina dove viene immagazzinato in attesa di subire il primo passaggio ovvero la spoliazione di tutti gli strati superficiali e la raffinazione tramite riduzione della propria massa fino al grado desiderato a seconda se si voglia un junmai o un daiginjo.

Riso grezzo.
In passato il riso poteva subire una riduzione che portava a scartare solo il 10-12% della massa del singolo chicco di riso e questo perché venivano utilizzati mezzi rudimentali e poco precisi quali, ad esempio, i mulini ad acqua. Agli inizi del 1900 il processo di raffinazione subì un’importante perfezionamento con l’introduzione di un sistema meccanizzato che prevedeva l’immissione del riso dentro a silos, alti contenitori di acciaio a forma cilindrica, chiamati seimaiki, in cui il riso arrivò ad essere ridotto fino al 50%. Ciò permise non solo una maggiore precisione nel processo di molatura, ma portò a qualità di nihonshu fino a quel momento mai conosciute.

Seimaiki (courtesy of Miyasaka Brewing Company Ltd.)
Ma come avviene questa raffinazione nei seimaiki? In sostanza, il riso viene fatto letteralmente precipitare dall’alto verso il basso, fatto passare tra una o due pietre macinanti (kongo) che si trovano alla base del macchinario, per poi essere riportato in alto dall’aria compressa tramite un tubo posto alla base sotto le pietre. Questo veloce e continuo movimento circolare dall’alto verso il basso da un lato e l’azione delle due pietre dall’altro, permettono al riso di spogliarsi lentamente degli strati superficiali, costituiti da lipidi e proteine.

Il riso durante la raffinazione nel seimaiki (courtesy of Miyasaka Brewing Company Ltd.)

Kongo
Il progresso tecnologico ha, poi, contribuito ulteriormente a migliorare la qualità del processo di raffinazione (seimai) e la precisione del seimaiki, affiancando alla meccanica un sistema informatizzato che tiene sotto controllo tutti i dati (giri al minuto, temperatura, velocità di caduta…) durante tutta la durata della raffinazione. Il controllo è assolutamente necessario perché il trattamento deve preservare il chicco di riso dalle criticità che potrebbero verificarsi nelle diverse ore in cui è sottoposto all’azione spoliante. Il chicco di riso deve, cioè, essere ridotto senza subire altre alterazioni organolettiche o peggio essere rotto perché questo vanificherebbe ab origine l’intera produzione. Il risultato di questa lavorazione ci porta a parlare del famoso seimaibuai.

Computer di controllo.