Dopo essere stato immerso in acqua fredda (10-15°c) ed averne assorbito quanto necessario, il riso è pronto per entrare nelle decisive fasi di trasformazione. In effetti, fino ad ora, il riso non ha subìto alcun trattamento particolare nè nel seimaiki né nel senmai né tantomeno nello shinseki. Ed anche se non è rimasto integro, possiamo dire che è stato “raffinato” con molta cura e meticolosa attenzione. E’ invece con il Mushi, la cottura, che il riso comincia a mutare.
Finora il riso è stato preparato ed affinato, spogliandosi di proteine e lipidi, riducendosi di massa ed assorbendo acqua sorgiva in misura del 20-30% del proprio peso. Adesso che si avvicina il momento cruciale della fermentazione, il riso deve essere cotto per poter creare quell’habitat ideale per il lavoro dei microrganismi che attivo la fermentazione e di cui ci occuperemo più avanti. Ora, il riso non viene cotto in acqua, bensì a vapore dentro un capiente contenitore chiamato koshiki. Tradizionalmente costruito in cedro giapponese, il koshiki, oggi è più facile trovarlo nella versione in acciaio, per le produzioni di piccole quantità fino a 800 kg. Per le produzioni industriali, invece, viene usato un macchinario, piuttosto ingombrante, sempre in acciaio, in cui un nastro trasportatore movimenta grandi quantità di riso su cui viene irrorato il vapore dal basso.
Il koshiki è un recipiente a forma cilindrica alla cui base sono presenti numerosi fori dai quali viene fatto fuoriuscire il vapore necessario per la cottura. Certo è che se il riso fosse messo a contatto diretto con la base del contenitore e con il vapore subirebbe una cottura violenta e non uniforme (stracotto negli strati sottostanti e crudo sopra). Quindi, per far sì che il vapore abbia un impatto graduale e uniforme con il riso si dispongono nel koshiki più livelli. Prima di tutto vengono disposti dei sacchi contenenti del finto riso in polimeri immediatamente sopra i fori della base. Poi è la volta di un rivestimento isolante. Ed infine, vengono messi nel koshiki strati successivi di riso distesi su più teli alle cui estremità sono presenti degli anelli a cui poi verrà agganciato un argano per estrarre il riso a fine cottura. Una volta riempito, il koshiki viene sigillato con un telo all’estremità in modo da essere isolato verso l’esterno e creare una ambiente pressurizzato tale da permettere al vapore di agire in modo efficace anche sugli strati più superficiali. Questo telo sarà quello che poi lentamente andrà a gonfiarsi, facendo assumere al koshiki la forma che vedete qua sotto.
Il riso viene sottoposto all’azione del vapore per un tempo medio che varia tra 40 ed i 60 minuti a seconda del tipo di riso e della quantità di riso immesso nel koshiki. La cottura per essere ottimale per le fasi successive deve retrocedere un riso leggermente duro all’esterno e morbido all’interno. Per verificare che la cottura sia andata a buon fine, il Toji, od un operaio da lui designato, esamina con mano una piccola parte di riso prima di dare il benestare a procedere con la lavorazione.
Attenzione: bisogna fin da ora tenere presente che il riso cotto a vapore non serve solo per una ed unica fase della lavorazione del nihonshu, bensì in momenti diversi. Il lavoro nelle cantine è, infatti, programmato e cadenzato da ritmi che variano a seconda del tipo di nihonshu in produzione e della fase di maturazione in cui si trova. E’ quindi normale che il riso cotto venga poi suddiviso in parti e con finalità differenti: una parte può servire come base per fare il koji (c.d. kojimai), un’altra parte potrà essere distribuita o per far partire la madre della fermentazione (shubo) o per alimentare la fermentazione principale (moromi).