Il riso una volta che è stato cotto a vapore viene diviso in kakemai, destinato ad essere usato nel moromi, e kojimai, in cui viene inoculato e lasciato crescere per 48 ore l’Aspergillus oryzae che comincia a trasformare gli amidi in zuccheri. Dal kojimuro il riso, così modificato, viene trasferito in una piccola tank di acciaio a cui viene aggiunta acqua ed un mix concentrato di lieviti per andare a formare la madre, ovvero la shubo. Entra così in scena la seconda famiglia di microrganismi – dopo l’Aspergillus oryzae – che collaborano nella creazione del nihonshu: i lieviti. E, proprio come è accaduto per il riso, per l’acqua sorgiva e per l’ Aspergillus, anche i lieviti sono stati, nel corso della storia del sake giapponese, studiati, scelti e selezionati. In quest’opera di studio e di approfondimento della conoscenza dei lieviti, hanno agito ed agiscono come protagonisti sia il National Institute of Brewing Reserch che i singoli produttori locali sempre attenti ad investire in nuove ricerche. Il National Institute of Brewing ha cominciato dall’inizio del novecento un’opera di catalogazione dei lieviti assegnando una numerazione progressiva ad ogni ceppo ed un nome che spesso ne richiama la provenienza. A questo proposito, solo per fare un esempio, basti pensare che uno dei lieviti più famosi, il Nanago o Kyokay n.7, è stato selezionato e “scoperto” dalla – e nella – cantina Miyasaka Shuzo nel 1946 nella prefettura di Nagano. Una volta introdotto nella selezione nazionale il lievito può essere acquistato anche da altre cantine che possono liberamente utilizzarlo. D’altro canto, non è insolito trovare cantine che invece di acquistare lieviti di produzione industriale, dichiarano di utilizzare lieviti naturali propri e selezionati in loco. Così come non è insolito l’utilizzo di più lieviti nella produzione della stessa partita di nihonshu. Lavorare con i lieviti è parte integrante del lavoro di ricerca che ogni cantina compie al fine di raggiungere sempre nuovi e differenti stili di sake in nome di quella qualità che porta le cantine ad essere sempre al passo con i tempi con risultati sempre più raffinati.
Ma come agiscono i lieviti? Che cosa fanno i lieviti? E qual’è il risultato della loro azione? I lieviti sono microrganismi naturalmente presenti nell’ambiente e da sempre utilizzati dall’uomo, basti pensare al pane, alla birra, al vino. Nel sake i lieviti intervengono per gradi consecutivi andando a sintetizzare il lavoro dell’Aspergillus. Ed infatti, se a quest’ultimo è demandato il compito di trasformare gli amidi in zuccheri, i lieviti nutrendosi di questi zuccheri, fanno partire la fermentazione della shubo prima e del moromi dopo, producendo alcool ed anidride carbonica.
Dal punto di vista della produzione, inoltre, i lieviti sono tanto delicati quanto importanti per la gestione ed il controllo della qualità della fermentazione che potrebbe degradare o, addirittura, fermarsi, ma anche per la quantità di sake prodotto. Una volta avviata la fermentazione nella shubo, sia la temperatura che la gradazione alcolica vengono continuamente monitorate per evitare che si venga a creare un ambiente ostile tale da non permettere ai lieviti di sopravvivere (per una eccessiva carica alcolica, per esempio) e di conseguenza alla fermentazione di progredire. Abbiamo già accennato che l’introduzione dei lieviti genera come risultato della loro opera, alcol e anidride carbonica nella fermentazione. Questo porta al crearsi di una schiuma naturale densa, più o meno compatta che prenderà diversi nomi a seconda del momento e del tipo di morfologia (suji-awa, mizu-awa, iwa-awa, taka-awa, ochi-awa, tama-awa e Ji).
Ora, in ragione del tipo di lievito utilizzato, avremo più o meno schiuma il che comporterà a sua volta una maggiore o minore produzione di nihonshu, stando che la quantità che può essere contenuta nelle tank usate rimane invariata. Nel tempo, dai lieviti originari ne sono stati creati altri con caratteristiche tali da ridurre la formazione della schiuma e massimizzare la produzione. Sono lieviti “senza schiuma” tali da evitare perciò di ricorrere a tank più grandi e sopratutto senza andare ad incidere sulla qualità del nihonshu. In verità, qui si sono aperte diverse scuole di pensiero sull’importanza o meno della presenza della schiuma e sulla sua incidenza sul maturando nihonshu. Ci sono ancora pochi produttori che scelgono lieviti originari che producono molta schiuma; ci sono quelli che producono sake con lieviti derivati pur avendo la possibilità di spazi e mezzi, mantenendo un occhio di riguardo alla qualità; altri, infine, che producono con lieviti derivati perché funzionali al processo industriali.
Sotto il profilo del gusto, i lieviti determinano gli aromi, più o meno fruttati, e l’acidità residua nel nihonshu andandone a definire e completare l’area di gusto. E’ per questa ragione che la ricerca di nuovi ceppi continua ancor oggi. Senz’altro c’è da aspettarsi, con il progredire della tecnologia e l’affinamento dei gusti, che la ricerca sui lieviti porti ad ulteriori sviluppi in fatto di gusti e di processi fermentativi. Pertanto per una cantina e per il suo Toji, la scelta di utilizzare certi lieviti invece che altri, rappresenta una scelta importantissima e fondamentale. Una scelta in un certo senso politica che riporta direttamente all’integrità della tradizione della sakagura stessa ed il suo rapporto con il territorio. E’ infatti bene precisare che la continua ricerca di migliori risultati e affinamenti di cui si compone la storia degli ultimi decenni del nihonshu, ci insegna che singole decisioni relative ai metodi di produzione possano essere rivedute alla luce di nuove e più attuali conoscenze tecnico-scientifiche o considerazioni di mercato. Non ci si dovrebbe, quindi, sorprendere se nei prossimi anni si arriverà a compiere altre scelte sull’utilizzo dei lieviti o a fare la scoperta di nuovi blend di lieviti. Tutto questo per cercare di accontentare o addirittura di creare nuove preferenze di gusto. Oggi più che mai, d’altronde, il mondo del sake giapponese è vivo e vitale.