Arriva!!

Prima spedizione

Prima spedizione.

Se qualcuno nel 2005 mi avesse detto ” Tra dieci anni importerai il sake giapponese in Italia” di sicuro lo avrei tenuto a distanza e guardato con sospetto… Ma oggi questa affermazione suona come una ipotesi impossibile rientrata tra le possibili. Abbiamo cominciato a passare notti insonni a studiare il sake giapponese, la sua storia e la sua filosofia. Abbiamo cominciato a chiamarlo nihonshu e a parlare di Toji, sakagura e kurabito. Insomma, da quando abbiamo deciso di importare il sake giapponese siamo stati studenti attenti e appassionati.

Mikunihare shuzo.

Mikunihare shuzo.

Chiariamolo subito: per noi il concetto fondamentale è la qualità. Importare la qualità del sake giapponese in Italia ha voluto dire garantire che l’intero processo dalla filiera di produzione, al trasporto, all’arrivo in magazzino mantenesse inalterato il prodotto come se lo bevessimo in Giappone. Rispettare la qualità del nihonshu significa per noi proporre un percorso genuino ed autentico. Ma significa anche proporre un tassello importante nella ricerca di nuovi stili di gusto ed abbinamenti gastronomici. Certo, siamo consapevoli delle declinazioni e delle mille sfumature che i vari sake giapponesi esprimono. E siamo altrettanto consci del fatto che ogni cantina sia espressione del territorio in cui è nata, storicamente radicata,  e nel quale sviluppa il proprio lavoro quotidiano. Siamo andati a cercare un nihonshu che fosse espressione di piccole, quanto significative, realtà locali.

Okamura shuzo.

Okamura shuzo.

E’ un Giappone tutto da scoprire. Adesso stiamo per portare le nostre prime bottiglie in Italia. Riuscire a portare il nihonshu in Italia vuol dire contribuire a portare l’Italia al passo con gli altri paesi europei e del mondo dove questa bevanda è già conosciuta ed amata.

Tomita shuzo

Tomita shuzo.

Un ultimo -ma importante-  ringraziamento ai nostri quattro fornitori (Arimitsu, Mikunihare, Okamura e Tomita) che ci hanno supportato nell’impresa e l’hanno resa possibile.

Pressatura.

Dopo circa un mese da quando il moromi si è composto, il nihonshu è pronto per procedere verso la fase finale: la pressatura. La pressatura, detta Joso o Shibori, serve per separare la parte solida, costituita dal riso fermentato (c.d. kasu), dalla parte liquida. Abbiamo tre metodi di pressatura: quello tradizionale, quello per caduta spontanea e quello moderno. Nel metodo tradizionale il moromi viene diviso in sacchi di cotone o di fibra a trama di fini/medie dimensioni che a loro volta andranno posti all’interno di una pressa rettangolare in legno lunga circa tre metri per uno e mezzo, detta fune. In un primo momento interviene il solo peso degli stessi sacchi, ammucchiati l’uno su l’altro, che porta alla fuoriuscita naturale del liquido. Il sake che fuoriesce per primo è chiamato arabashiri. Successivamente grazie all’azione della stessa pressa, fuoriuscirà il liquido rimanente in modo lento e graduale, sake detti rispettivamente nakadori e nakagumi. Infine, si otterrà il seme che è l’ultimo nihonshu che deriva dalla pressatura dei sacchi che vengono cambiati di posto nella fune il giorno successivo al nakagumi.

Pressa, fune.

Pressa, fune.

Sake - nakadori

nihonshu – nakadori

Anche nel “metodo a caduta spontanea” il moromi viene immesso in dei sacchi di fibra i quali però vengono poi appesi  all’interno di un contenitore o tank che deve raccogliere il liquido. Chiamato anche shizuku-zake, questo liquido per caduta spontanea può essere raccolto in quella che potremo definire una damigiana in vetro (contenente fino a 18 litri di liquido). Questo metodo è sicuramente quello più dispendioso e più impegnativo. Viene riservato solo a nihonshu che debbano rispettare determinate aspettative in fatto di sapori eleganti e complessi. Di solito si tratta di edizioni limitate, e spesso, riservate alle competizioni.

Il metodo moderno, infine, viene anche chiamato metodo Yabuta , definizione derivante dal nome della ditta che produce la macchina che viene utilizzata per la pressatura. Qui il moromi viene immesso in un lungo macchinario che può occupare un’intera stanza, all’interno del quale il moromi viene viene a disporsi in modo da creare un multistrato che sarà pressato per mezzo dell’introduzione graduale di aria compressa permettendo la separazione del nihonshu dalla parte solida. Il residuo di queste pressature sarà quello che si chiama sake kazu e che viene commercializzato per usi alimentari avendo un alto valore nutrizionale ed un basso tenore alcolico residuo (circa l’8%). Il nihonshu viene poi fatto riposare per un breve periodo, in modo che gli eventuali residui vadano a depositarsi sul fondo della tank e si possa poi passare alle fasi eventuali e successive di filtratura, pastorizzazione e diluizione in acqua.

Tomita shuzo.

Tomita shuzo

Tomita shuzo

Una giornata di lavoro alla Tomita shuzo è una giornata che non si dimentica.

Era sera quando arrivammo nella cittadina rurale di Nagahama sulle rive del più grande lago del Giappone, il lago Biwa. Nevischiava ed era abbastanza freddo. Dalla piccola stazione locale, la nostra amica ci portò in una accogliente locanda tradizionale per passare la notte nelle vicinanze della cantina che ci attendeva per il giorno successivo. La mattina dopo ci svegliammo prestissimo perché, sebbene l’appuntamento fosse per le 7.00, non conoscendo la zona e volendo essere puntuali, convenimmo di arrivare qualche decina di minuti prima…poco male, oramai eravamo abituati al freddo e ne approfittai per fare qualche foto nei dintorni.

Ore 6:30 am.

Ore 6:30 am vicino a Tomita shuzo.

Una volta individuata la cantina – la si riconosce per il classico lungo camino in mattoni e dal legno marrone scuro delle pareti – ci mettemmo ad aspettare davanti che qualcuno ci venisse ad aprire (pratica zen). Ed in effetti alle sette in punto una porticina si aprì e ci venne ad accogliere Yasunobu Tomita, ovvero il titolare della sakagura. Il giovane Yasunobu Tomita, dopo aver passato un periodo della sua vita a Tokyo, è tornato nei suoi luoghi natali per produrre nihonshu con un progetto imprenditoriale ed una filosofia ben definiti in mente: continuare a produrre il nihonshu con i metodi tradizionali e nel pieno rispetto della storia e degli usi locali. Questo lo ha portato a raccogliere il testimone e a porsi alla guida di questa sakagura che è nata più di un secolo fa (epoca di Edo) davanti al lago Biwa ed alle pendici del monte Tegamiyama.

Controllo della fermentazione (courtesy of Tomita shuzo)

Preparazione del koshiki per il mushimai (courtesy of Tomita shuzo). L’addetto responsabile di questo passaggio si chiama kamaya ed è una delle tre figure più importanti insieme al Toji.

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Controllo della fermentazione (courtesy of Tomita shuzo)

Quando entrammo mi sembrò di fare un passo indietro nel tempo complici le luci soffuse, gli odori di legno e di lieviti e l’atmosfera umida ovattata. La struttura in legno della cantina trasuda storia di fatiche quotidiane da tutte le parti. Prima di accedere alla vera e propria parte interna della cantina dove il nihonshu stava maturando, ci furono fatte togliere le scarpe per indossare altre calzature più adatte, ci fu fatto mettere un copricapo e lavare le mani. Ecco ora eravamo pronti per entrare. Ci presentammo ai giovani lavoratori che, a giudicare, erano già all’opera probabilmente da un’ora o più. Tomita san cominciò ad illustrarci che cosa ci fosse dentro i vari tank e come fosse organizzata la cantina, ma fu interrotto da un suo assistente che lo informava che era l’ora. Ci spostammo quindi in una parte laterale della cantina dove c’era una lavagna e ci disponemmo in cerchio per assistere al briefing che di lì a poco sarebbe iniziato. Per primi Tomita san ed il Toji andarono a precisare alcuni valori circa la produzione e sottolineare alcuni momenti importanti della programmazione che era stata stabilita mesi prima e che si stava seguendo per portare a termine la produzione stessa. Prese, poi, la parola uno dei giovani lavoratori che identificai nel responsabile della organizzazione e che con tono deciso e chiaro andò a sviluppare e mostrare le diverse linee di produzione in quel momento in atto, ed infine, prese a definire i compiti da svolgere nell’intera giornata.

Briefing.

Briefing.

La breve riunione si sciolse e tutti tornarono rapidamente alle loro mansioni per preparare il koshiki per la cottura del riso, controllare le diverse fermentazioni, lavare con acqua bollente gli strumenti di lavoro, preparare la shubo…. Nel frattempo noi rimanemmo con Tomita san che continuò a raccontarci con dovizia di particolari come il nihonshu fosse prodotto e quanta esperienza e sensibilità si debba acquisire per portarlo a maturare. Mentre il riso ultimava la cottura nell’antico koshiki, andammo a controllare la temperatura delle shubo nelle piccole tank  al piano di sopra e  dei moromi nelle grandi tank al piano di sotto. Tutto veniva annotato con precisione e le annotazioni verificate attentamente dal Toji. 

Controllo della fermentazione (courtesy of Tomita shuzo)

Controllo della fermentazione (courtesy of Tomita shuzo).

 Considerato che erano quasi due ore che stavamo in cantina, fummo invitati a prendere un caldo the verde ristoratore insieme con Tomita san ed i suoi giovani collaboratori. Ci ritirammo in un piccolo salottino rivestito di tatami e, con l’occasione, parlammo della storia secolare della cantina e del suo futuro, del tipo di riso utilizzato e della qualità del nihonshu.”La Tomita shuzo –  ci disse Yasunobu – vuole a tutt’oggi continuare a tramandare quelle che sono le peculiarità che questo territorio può esprimere. E questo non riguarda solo i metodi di lavorazione artigianale che noi utilizziamo, ma anche la riscoperta e la valorizzazione di ingredienti locali, quali ad esempio i lieviti selvaggi o l’antico riso wataribune. Questo riso era coltivato fino all’epoca Meji, poi fu abbandonato ed oggi, anche grazie alla volontà di questa cantina, è stato ripiantato per essere utilizzato nella produzione di un certo tipo di nihonshu che ha sapori antichi.” La Tomita shuzo produce un  nihonshu definito te-zukuri, letteralmente “fatto a mano”, in un numero limitato di bottiglie perché qui la qualità del nihonshu conta quanto l’esperienza delle persone che contribuiscono a produrlo. Il simbolo della cantina così come il nome del loro nihonshu, Schichi Hon Yari, si rifa all’antica storia di sette leggendari samurai che si dedicarono anima e corpo alla loro missione.

La cottura del riso nel koshiki (courtesy of Tomita shuzo)

La cottura del riso nel koshiki, detta mushimai o Jomai (courtesy of Tomita shuzo)

Arrivò poi il momento atteso: il riso era pronto per essere lavorato. Tutti presero posizione e con un ritmo veloce, incalzante, mai frenetico, ma sempre ordinato e nello stretto giro di un’ora, i seicento kili di riso vennero spartiti come era stato previsto: una parte per i moromi nelle tank e una parte nel kojimuro per divenire kojimai. In pratica il riso veniva travasato dal koshiki tramite un piccolo argano per essere messo su un nastro dove veniva disteso e, se destinato a divenire kojimai, veniva cosparso di koji, altrimenti veniva semplicemente ridistribuito in teli di cotone per essere subito – e di corsa! – portato a mano nelle tank assegnate.

Tanekiri, preparazione del riso per divenire kojimai (courtesy of Tomita shuzo)

Tanekiri, preparazione del riso per divenire kojimai (courtesy of Tomita shuzo). Il riso viene irrorato dalle spore dell’Aspergillus oryzae per indurre la trasformazione dell’amido in glucosio. L’addetto responsabile di questa operazione viene chiamato chiama Kojishi o Taishi.

 Il tutto si svolgeva sotto l’occhio vigile del Toji che attendeva il riso sulla scala appoggiata a questo tank o a quel tank prestabilito. Una volta che il riso veniva buttato nel moromi il Toji con una specie di lunga pala rimescolava più e più volte per permettere al nuovo riso di amalgamarsi e distribuirsi in modo uniforme. Era una vera e propria catena di montaggio dove ovviamente niente era lasciato al caso.

Toji (courtesy of Tomita shuzo)

Toji (courtesy of Tomita shuzo)

Dalla Tomita shuzo andammo via lasciandoci alle spalle una giornata di quelle che non si dimentica. Una giornata in cui capita di incontrare giovani persone che hanno fatto una scelta che portano avanti con dedizione quotidiana e, come lo stesso simbolo della Tomita shuzo ci ricorda, riporta alla mente la stessa forza e convinzione dei samurai.

 

 

 

Okamura shuzo.

Paesaggio

Paesaggio

Dopo giorni passati da una metropoli all’altra, quando arrivammo a visitare la Okamura shuzo quello che mi colpì fin da subito fu l’autenticità del paesaggio rurale giapponese e la cordiale atmosfera familiare. Arrivati alla stazione  della città di Sanda, ci venne a prendere una nostra amica e subito ci lasciammo alle spalle quella cittadina  quasi si trattasse di una vera e propria “fuga dalla città”.

Paesaggio

Paesaggio

Dopo una quarantina di minuti di macchina in cui attraversammo alcuni piccoli sobborghi di campagna, nella nostra mente l’immagine dei terrazzamenti  delle risaie e delle case con il tetto a spiovente si era andata a sostituire a quella dei campi e dei vigneti toscani dei nostri ricordi.

Paesaggio.

Paesaggio.

Nonosante il tempo non fosse tra i più ospitali- faceva un bel freddo!! -, fummo accolti calorosamente dalla signora Okamura e da sua figlia che subito ci offrirono un dolce fatto con il sake kasu ed un caldo the verde appena fatti. Passammo un pomeriggio per conoscere la storia di questa famiglia che da cinque generazioni vive qui e produce un nihonshu fedele espressione di questo territorio ovvero robusto e genuino nel pieno rispetto dello spirito popolare giapponese. Nella degustazione dei loro nihonshu che seguì la visita, ebbi modo di appuntare:  “A tratti ricorda alcuni sangiovesi toscani prodotti in piccole quantità che mantengono quella integrità che è, poi, quel filo conduttore tra passato e presente”. La denominazione che la famiglia Okamura ha scelto è Chidori-masamune che in italiano potrebbe essere liberamente tradotto come “il sake che porta fortuna”. E direi che la fortuna, almeno nell’accezione di longevità, alla Okamura shuzo non è mancata: qui si è difronte ad una famiglia che con i suoi 130 anni di vita si fa testimone della storia e della tradizione del sake giapponese.

Okamura Shuzo.

Okamura Shuzo.