
Mikunihare shuzo.
APPUNTI DI VIAGGIO. Eppure è inverno e le vicine alpi sono ancora imbiancate. Ma le strade sono libere dalla neve e la temperatura tutto sommato mite. In macchina da un’ora, il mare appare e scompare sulla nostra sinistra. Subito ci perdiamo nella piccola cittadina di Kurobe cercando la Mikunihare shuzo. Ecco allora che la nostra amica ci indica un perfetto quadrilatero, un fortino di legno scuro, dicendoci che quella è la cantina e ci giriamo intorno due volte prima di trovare l’entrata.

Etichettatura.
Quando entriamo la prima persona che ci viene incontro è una signora che ci fa entrare in una specie di magazzino di stoccaggio e ci chiede gentilmente di aspettare il proprietario che accompagnerà nella visita. Poi lei si rimette tranquillamente a lavorare ed in quell’istante ho compreso quello che volevo. Sake sì, ma artigianale. La signora al nostro arrivo era dedita ad etichettare le bottiglie di sake una ad una ed era quel lavoro semplice, ma attento, ad avere attirato la mia attenzione: meticoloso segno di concentrazione espressione di una metrica personale e locale. Di lì a poco arriva il signor Iwase, la cui famiglia gestisce la cantina da quattro generazioni ” In realtà la cantina esiste anche da prima, dall’epoca di Edo, ma noi diciamo che è più o meno centotrenta anni che esiste…non è sufficiente?” ci dice scherzando. E subito, mentre parliamo, ci spostiamo fuori all’aperto, perché la produzione va presentata a partire dal primo, fondamentale elemento, rappresentato dall’acqua di sorgente. Il pozzo di acqua scavato all’interno della sakagura è un pozzo da cui sgorgano due tipi di acque da profondità diverse. Delle due una, quella che proviene da più di cinquanta metri di profondità, è stata premiata per le sue qualità che la rendono ottima per la produzione del sake (basso contenuto di ferro e manganese, e buona presenza di magnesio, potassio, fosfati e calcio). Dipende sempre dalle proprietà minerali migliori.

Mikunihare shuzo, particolare interno.
La Mikunihare shuzo è una cantina a misura d’uomo. Questa è la prima impressione. Gli spazi sono calcolati per geometrie umane. Iwase san ci comincia ad illustrare i luoghi ed i macchinari coinvolti nella lavorazione del riso ed i diversi passaggi che il riso subisce durante la produzione del nihonshu. Mentre mi guardo attorno noto l’assenza degli alti cilindri metallici che servono per il Seimaiki, la molatura. ” Fino all’anno scorso c’era un responsabile che seguiva l’intero processo di raffinamento, ma poi, andando in pensione, abbiamo dovuto affidare la lavorazione ad una ditta esterna. In effetti – ci dice mostrandoci dei chicchi di riso Yamada nishiki raffinato al 35% – per ottenere queste piccolissime perle ci vogliono tre giorni in cui le macchine lavorano ininterrottamente, dopodiché il riso deve riposare per almeno tre settimane (karashi).” “Ma chi lo sceglie il riso? Quale criterio seguite per la scelta? Usate un solo tipo di riso? Quanto riso usate per ogni partita di nihonshu?”” La scelta del riso viene fatta da me e dal Toji a seconda di quale tipo di nihonshu decidiamo di produrre nella stagione in corso e dalla qualità del riso. Tutto il riso utilizzato qui proviene dalle coltivazioni locali. Principalmente Yamada nishiki, ma non solo.”

Titolare della Mikunihare shuzo.
“Nella nostra cantina per produrre circa 4600 litri di junmai ginjo utilizziamo poco più di 2000 kg di riso raffinato- ci rispose Iwase san – Mentre per la produzione del daiginjo usiamo tank più piccole che contengono fino a 200 kg di riso dal quale riusciamo a produrre quasi 500 litri di nihonshu. Il tipo di riso da utilizzare a seconda dei tipi di nihonshu, viene stabilito all’inizio da me insieme al Toji che poi seguirà l’intera produzione. Certo che noi abbiamo più affinità con lo Yamada nishiki perché risulta più versatile e ci garantisce risultati migliori in fatto di fermentazione e di aromi e sapori finali del nihonshu. Ma questo non vuol dire che utilizziamo solo questo tipo di riso. Anzi, da sempre cerchiamo di valorizzare le coltivazioni locali e per questo per il nostro Tokubetsu junmai usiamo un riso, il Tomi No Kaori, che sviluppa aromi molto morbidi, così come per il junmai ginjo usiamo lo Oyama nishiki: tutte varietà di riso coltivate nella prefettura di Toyama (nda quella in cui ci troviamo).”

Kojimuro, particolare.
Ci spostiamo, quindi, nella kojimuro dove Iwase san ci illustra tutti i singoli passaggi (Hikikomi, Tokomomi, Kirikaeshi, Mori, Nakashigoto, Shimaishigoto e Dekoji) che nell’arco di quarantt’ore portano alla saccarificazione del riso. “Anche la scelta del tipo e la giusta quantità da utilizzare di Aspergillus oryzae diventa fondamentale e costituisce un tassello importante per il costituendo nihonshu. Ed anche questa scelta spetta al Toji. Nella koji muro troviamo, poi, il Koji san che è il responsabile del delicato processo che ivi si svolge e che deve controllare e coordinare insieme con il Toji affinché vengano rispettati correttamente i tempi di lavorazione; che la movimentazione del riso sia giustamente cadenzata; e che i valori di temperatura ed umidità del riso e dell’ambiente siano mantenuti stabili ed entro i range compatibili con la vita dell’Aspergillus oryzae. Migliore sarà il kojimai migliore sarà il nihonshu.

Kojimuro, particolare.
Usciamo quindi dal kojimuro per salire al piano di sopra tramite una ripida scala in legno. Qui ci troviamo a poter vedere dall’alto le tank in cui è contenuto il moromi in tutta la sua vitalità. Nelle piccole tank le shubo stanno ultimando la prima fermentazione per poi essere impiegate per la nuova produzione. Iwase san ci spiega le differenze tra le shubo ottenute con il metodo kimoto kei o sokujo kei (qui preferita) ed i quattro passaggi fondamentali del sandan jikomi (hatsuzoe, odori, nakazoe e tomezoe). “Certo che anche se usiamo lo stesso koji, la stessa acqua, lo stesso tipo di riso e lo stesso Toji, non è detto che il risultato sia identico…Per esempio, può succedere che un anno il raccolto sia migliore dell’anno prima. Anche per il nihonshu valgono le stesse regole che valgono per il vino, entrambi sono vivi e molto vitali.”

Mikunihare shuzo, moromi e shubo.
Passiamo, infine, nell’ultima sala dove il moromi viene immesso nella grande macchina, Yabuta, per essere pressato. Qui la pressatura dura circa due giorni ed avviene in modo lento. All’inizio il sake fuoriesce per caduta spontanea poi lentamente la macchina comincia il lavoro di pressatura. Il nihonshu che se ne ricava ha una gradazione alcolica pari a 18-19%. Viene quindi travasato in una grande tank dove viene diluito e mescolato con acqua di sorgente fino a raggiungere una gradazione pari all’incirca a 15%. Il risultato di scarto della pressatura si chiama sakekazu e viene utilizzato per fare un sake dolce a bassa gradazione alcolica chiamato Amazake. “Se poi metti il sakekazu dentro al forno e lo cuoci leggermente sembra di mangiare formaggio.”

Yabuta, la pressa.
Prima di lasciare Iwase san e tornare sulla strada per Osaka un’ultima domanda: “Ci sono giovani disposti a lavorare nella cantina?” “In effetti, prima non c’era molta disponibilità, ma adesso i giovani sono tornati ad avvicinarsi a questo mondo anche grazie al successo che il nihonshu sta avendo all’estero, sopratutto negli USA. E sono sicuro che questa tendenza verrà confermata nei prossimi anni anche perché la qualità del nihonshu sta sempre più affinandosi, raggiungendo risultati qualitativi che solo fino a qualche decennio fa erano insperati!”

Mikunihare shuzo.