Quando lo sono venuto a sapere, ho subito pensato:” Chi l’avrebbe mai detto! Un fiorentino che lavora come kurabito in una cantina giapponese! Un caso più unico che raro.” Su internet ho letto di inglesi, americani, australiani e canadesi che si sono cimentati nel lavoro nelle sakagura per periodi più o meno lunghi. Mai di un fiorentino. Così ho colto l’occasione e nell’ultimo viaggio in Giappone sono andato ad incontrare ed intervistare Giovanni Municchi: un kurabito fiorentino.
Buongiorno Giovanni, da quanto tempo lavori nella sakagura? Avevi mai pensato che ti saresti trovato a lavorare nel mondo del sake giapponese?
Lavoro come kurabito da sei anni…In effetti non avevo mai pensato di lavorare nell’ambito del sake giapponese. In Italia avevo avuto modo di bere il sake giapponese solo una trentina di anni fa quando aprì il famoso ristorante Eito in Via de’neri…lo si beveva caldo, non esisteva freddo, ma era tutto un altro sake! Quando sono arrivato in Giappone ho prima affrontato altri lavori, ma poi ho avuto l’opportunità di trovare, ma anche provare!, questo lavoro e l’esperienza mi è subito piaciuta, è stato amore a prima vista, potrei dire! La cantina si chiama HAYASE-URA produce nihonshu dal 1718 e fin dall’inizio ho capito che mi trovavo a muovermi in un luogo storico, antico.
Quale è stata la prima impressione che hai avuto quando sei entrato a lavorare in cantina?
Di certo mi è apparso subito come un lavoro tanto interessante quanto complesso. Sono arrivato lì il primo giorno ed avevo tutto da imparare. All’inizio osservavo e prendevo nota di tutto. Ogni singolo passaggio, anche quello apparentemente più semplice, poteva diventare fondamentale nelle diverse fasi di lavorazione del nihonshu.
Sono entrato a far parte della sakagura un paio di mesi prima che la produzione iniziasse ed ero, come puoi immaginare , l’unico straniero ed allora mi sono rimboccato le maniche e mi sono messo a disposizione del Toji che, con pazienza, mi insegnava il necessario e lasciava che io imparassi dall’osservazione diretta sul campo. Considera che, prima di produrre il sake, la cantina deve essere in tutto e per tutto preparata, pulita e resa quasi asettica. Dentro oltre agli uomini lavora un microcosmo naturale il cui habitat è molto delicato e sensibile ad ogni minimo, invisibile cambiamento o interazione dovuta alla temperatura, all’umidità, piuttosto che all’introduzione di nuovi materiali. Nella cantina vige un principio di osmosi, questo è quello che impari fin da subito nel mondo del sake. Tutto è vivo.
Quante ore lavoravi al giorno all’inizio? E come era organizzato il lavoro?
In quel momento avevamo un’organizzazione diversa rispetto ad oggi che si entra alle 7. Entravamo alle 5 del mattino e si cominciava a preparare gli strumenti di lavoro piuttosto che a lavare il riso. Si faceva una pausa solo quando si metteva nel koshiki il riso a cuocere..verso le sette. Allora ci si riuniva tutti insieme e facevamo colazione “alla giapponese” con riso e pesce, per circa quaranta minuti, giusto il tempo di riprendere fiato. Poi una volta cotto il riso si partiva con la produzione di kojimai..kakemai..e via fino alle dieci per un’altra pausa breve di dieci minuti. Dopodiché continuavamo a lavorare fino al pranzo che veniva preparato fuori, all’esterno, evitando accuratamente di utilizzare determinati alimenti che potessero contaminare la fermentazione e l’ambiente della cantina stessa. Sono attenzioni che si devono avere quando siamo in produzione e..niente deve essere lasciato al caso…neanche quello che mangia chi sta a contatto con il riso ed il futuro sake!
Di solito, poi, la giornata lavorativa terminava alle cinque del pomeriggio, ma se c’era bisogno rimanevamo fino a quando il Toji non decideva che tutto era a posto e che si poteva lasciare lavorare il nihonshu da solo.
Quanti siete a lavorare nella sakagura? Quante bottiglie producete? E che tipo di lavorazione fate?
Siamo in quattro: due kurabito, il Toji ed il figlio del proprietario. Ed anche se la nostra produzione è limitata a 50.000 bottiglie, non ci fermiamo mai un attimo. C’è sempre qualcosa da preparare o da portare a termine. Il tipo di lavorazione che facciamo è nel pieno rispetto della tradizione. Il Toji stabilisce alcuni mesi prima con il proprietario della cantina il timing dei vari passaggi per poi seguire passo passo l’intera produzione. Il riso lo ordiniamo ad una cooperativa agricola che ha le risaie qui vicino. Ricordo che nel primo periodo sono andato a lavorare insieme a loro per coltivare il riso che poi avremo lavorato in cantina. Si tratta comunque di una produzione locale. Pensa che la sakagura è stata fondata nel 1718 e da allora si tramanda di padre in figlio. Dimmi te se non è espressione del territorio questa?
Quali sono gli ingredienti che usate per produrre il sake? Qual’è il più importante? Il riso? Il komekoji? I lieviti?
Cerchiamo di programmare tutto prima di iniziare. Il tipo di riso, di kojikin, di lievito. Sappiamo che le variabili sono all’ordine del giorno e cerchiamo di gestire la temperatura di fermentazione. Utilizziamo riso diverso a seconda del tipo di nihonshu che stiamo producendo o di quello che vorremo produrre. Senza dubbio un buona parte è di Yamadanishiki, ma non solo. Lasciamo posto anche al riso locale lo Gohyakomangoku ed il Koshino shitsuko. Così come nei lieviti dove oltre ai classici 601, 901,1401 usiamo anche il nuovo 1801 e lo speciale lievito di Fukui. Insomma, ogni anno andiamo alla ricerca di nuovi lieviti che ci portano su strade nuove, riuscendo a produrre un tipo di nihonshu diverso. Non bisogna dimenticare che comunque questi lieviti interagiscono con quelli che sono già nell’aria, nella cantina. E’ importante capire che nel sake giapponese prima di tutto è la natura che fa il suo il suo percorso. L’uomo interviene, ma solo in un secondo momento, per dare una sua interpretazione. Qui non ci sono conservanti o coloranti che correggono il nihonshu. Per capirsi, basta un mezzo grado in più o in meno e lo stesso sake in fermentazione subisce una diversa maturazione in fatto di sapori ed aromi, anche a parità di ingredienti.
Cosa ti aspetti nel futuro dal nihonshu?
Rispetto a qualche anno fa in sake giapponese sta vivendo un momento molto fervido ed interessante. E questo fondamentalmente per due ragioni che si sostengono a vicenda: il modello di qualità adottato nella produzione e l’incremento delle vendite.
Non è un segreto che proprio come è accaduto nella storia del vino in Italia, si è cominciato a supportare la produzione del nihonshu con una ricerca e, qualche volta, con una vera e propria riscoperta di qualità con ottimi risultati sia dal punto di vista di aromi e sapori, costruiti in modo da risultare molto delicati ed eleganti, sia da quello delle materie prime utilizzate come alcuni tipi di riso autoctoni o lieviti nativi, tornando a dare valore alle diverse peculiarità locali.
Il secondo aspetto, l’incremento delle vendite, sta poi dando un giusto riconoscimento a questo lavoro di qualità. E questo soprattutto anche grazie alle esportazioni in paesi come gli Stati Uniti, il Canada, l’Australia ma anche in alcuni del sudest asiatico come Cina, Taiwan, Honk Kong, in cui il consumo del sake giapponese sta conoscendo un momento importante e positivo. Un interessamento del genere mi sembra stia crescendo anche in Europa e, credo, anche in Italia.
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