Di ritorno da una delle mie solite incursioni-degustazioni di sake giapponese, non mi rimane che raccogliere alcune riflessioni intorno a questa bevanda, ancora tutta da scoprire. Se è vero che siamo condizionati dai nostri preconcetti (anche in fatto di cibi e bevande), lo siamo ancor di più nella fase della scoperta del nuovo dove, per una sorta di eccesso di difesa, spesso tendiamo a scegliere, più o meno inconsapevolmente, proprio il preconcetto che più ci allontana dalla realtà delle cose. In effetti, dopo una serata passata a fare assaggiare il sake giapponese e a raccontare quale sia la sua storia e la sua origine, ciò che rimane, come affermazione più ricorrente nella presentazione, è che: “il sake giapponese NON è un distillato“.
Come in tutte le parti del mondo, infatti, anche in Italia il sake giapponese risulta essere un distillato… Per carità, non è tanto una bestemmia per i puristi, quanto piuttosto una falsa aspettativa che si viene a creare e che inevitabilmente falsa l’esperienza gustativa. E’ come se mi preparassi a ballare un tango ed invece si tratta di uno swing. Le mie aspettative sarebbero senz’altro deluse non tanto per le qualità di ciò che sto bevendo quanto piuttosto per l’approccio con cui mi ci avvicino. Se, invece, si guardasse al sake giapponese per quello che realmente è ovvero un alcolico sapientemente fermentato dal riso, allora incominceremo ad apprezzarne i diversi colori, aromi e sapori. C’è un mio carissimo amico che sostiene che il sake giapponese rispecchia in tutto e per tutto un certo pensiero giapponese: come nel vino siamo abituati ad analizzare le complessità gusto-olfattive che compongono il rosso ed il bianco, la filosofia della presenza, così nel sake giapponese, in una indagine analitica, bisognerebbe andare a cercare la delicata essenza degli elementi derivanti dai lieviti, dal koji e dall’acqua, la filosofia dell’assenza. Se mancano le coordinate di base fare i due successivi passi falsi (oltre a quello che vorrebbe il sakè un distillato) è abbastanza normale.
Il primo passo falso: si pensa che il sake giapponese debba essere servito caldo (anche da questo deriva l’erronea credenza che sia un distillato, in quanto è noto che con il calore la componente alcolica sembra maggiore).
Il secondo passo falso: il sake giapponese si serve a fine pasto perché, essendo un liquore distillato, aiuta anche la digestione.
E’ chiaro che il primo passo falso sostiene il secondo e viceversa. E’ tutta una questione di aspettative. Se bevendo il sake giapponese ti aspetti un distillato e poi invece te lo servono fresco o a temperatura ambiente perché, magari, è un Premium sake, e ti accorgi che non percepisci l’alta gradazione alcolica a cui eri pronto, inevitabilmente resterai deluso. E così, se viene servito durante i pasti – come è giusto che sia! – si dovrà essere pronti a mettere in conto nuove esperienze di gusto in abbinamento con le pietanze servite sempre con la speranza che siano stati studiati in precedenza i giusti accostamenti. Ed anche, di certo, si dovrà calcolare un po’ di margine di errore (chi non è mai caduto facendo i primi passi..?) e concedere spazio ad una certa creatività che in cucina non dovrebbe mai mancare.
In ogni caso, è chiaro che, una volta assimilate queste coordinate, le aspettative nei confronti del sake giapponese, come fermentato di riso, non verranno disattese e finiranno per aprire ed allargare nuovi orizzonti alle nostre quotidiane esperienze enogastronomiche. Per concludere, quindi, è un’atteggiamento di ricerca quella che dovrebbe portare verso il sake giapponese. Ed è una ricerca che dovrebbe portare a cercare il proprio gusto nei diversi sake giapponesi: per finire, poi, di scoprire che il sake che non ti aspetteresti di incontrare a tavola è…proprio quello che hai davanti! Kanpai!!