Il nihonshu oggi in Giappone.

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Sake Bar. Osaka.

Che il consumo interno di sake giapponese sia aumentato? Che il sake giapponese abbia acquisito popolarità all’estero più che in patria e che ora stia tornando in auge proprio lì dove nasce? Forse è ancora presto per dirlo. Certo è che l’interesse per questa bevanda da parte di quelli che solo fino a qualche anno fa erano potenziali consumatori sembra essere stata risvegliata. Che sia per l’ottima qualità raggiunta da questa bevanda? Che sia per la versatilità – si pensi all’utilizzo nei cocktails o agli abbinamenti con pietanze “distanti”  – che il sake giapponese sta dimostrando all’estero?

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Tasting sake. Thanks to Wakaba Shuzo.

I consumatori giapponesi che, fino ad un paio di decadi fa, apparivano restii e poco attratti nei confronti del sake giapponese (nihonshu), sembrano oggi incominciare ad accorgersi dei progressi che la tradizione ha compiuto in fatto di qualità ed affinamento per rimanere al passo coi tempi e poter tranquillamente rappresentare una scelta di qualità sia per l’aperitivo che per i pasti.

Se questa sia solo una impressione a caldo o sia una fotografia della realtà di oggi saranno i dati raccolti a fine anno a confermarlo. Di sicuro, in confronto a statistiche che attestavano un lento quanto inesorabile declino di consumo interno di sake giapponese, il mercato registra invece un momento di stabilità che, anche se non riporta ad un evidente incremento, rimane di per sé già un segno positivo.

Dagli anni ’70 sul fronte interno il calo dei consumi di sake giapponese è stata influenzata da molti fattori tra cui, solo per fare qualche esempio, la forte tassazione per i sake più raffinati, il costo delle materie prime, l’introduzione nel dopoguerra di bevande alcoliche “altre” (birra, wiskey, softdrinks..). I gruppi industriali giapponesi del settore beverage si sono, infatti, per lungo tempo dimostrati più interessati a promuovere con forti investimenti i consumi su bevande veicolate come “più moderne e occidentali”, oltre che altamente marginanti e concorrenziali, piuttosto che sul consumo del sake giapponese. Tutto ciò ha portato ad una contrazione del mercato che ha negli ultimi anni del secondo millennio decimato le piccole e medie produzioni locali, mentre le Grandi del sake cercavano di creare all’estero (soprattutto in America e sud est asiatico) i presupposti per un nuovo mercato.

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E così, mentre i consumi interni diminuivano e le cantine chiudevano, chi ha potuto sopravvivere ha deciso di investire in un percorso di qualità e di ricerca. Un percorso che ha portato talvolta al recupero di tecniche di produzioni artigianali antiche o di culture di riso precedentemente abbandonate che in abbinamento con le nuove conoscenze scientifiche hanno portato ad altri gusti di sake giapponesi. Una ricerca che, tra l’altro, ha introdotto l’adozione di nuovi macchinari che garantiscono una maggior precisione ed attenzione nella lavorazione e raffinazione del riso nei passaggi che portano alla fermentazione. D’altre parte bisogna rilevare come negli ultimi anni ci sia stato un cambiamento di tendenza da parte della legislazione fiscale che ha sensibilmente alleggerito la tassazione permettendo alle produzioni di recuperare margini operativi, a dir poco, vitali in questo periodo di crisi per le cantine.

E quindi, se è vero come è vero che la produzione interna ha sviluppato, negli ultimi decenni, un percorso di qualità che ha fatto riscoprire il sake giapponese all’estero come bevanda principe delle tavole imbandite da chef di fama mondiale, c’è da attendersi che da un giorno all’altro sempre più consumatori giapponesi si accorgano dei progressi della loro tradizione. Ed infatti se, dati alla mano, ancora non si assiste ad un incremento dei consumi interni, a chi va per le strade delle grandi città può capitare di imbattersi in nuovi sake bar aperti da imprenditori che hanno considerato propizio il momento ed hanno cominciato a servire diverse selezioni di nihonshu esattamente come succede dalle nostre parti nelle enoteche con il vino.

E chi sono gli avventori di questi sake bar? E’ un pubblico adulto, preparato e selettivo. In particolare, sono i consumatori di età tra i trenta ed i quaranta che si  “ri”avvicinano al sake spesso sorprendendosi per i gusti e gli aromi che questa bevanda riesce ad esprimere. Tra gli avventori dei diversi sake bar, c’è sempre in sottofondo un leit motiv: la voglia di volersi confrontare con una bevanda che non si (ri)conosce. La frase più ricorrente tra i calici dei sake bar è che il sake giapponese che bevevano i loro nonni e padri non aveva lo stesso morbido affinamento e la stessa leggera complessità che molti nihonshu portano con sé ai giorni nostri.

Sono certamente cambiate le aspettative dei consumatori: sempre più competenti, esigenti ed attenti sia alla qualità che al prezzo. Eppure il sake giapponese sta già dimostrando di poter rispondere alle aspettative contemporanee sia nel momento della produzione (bevanda prodotta anche con riso biologico, senza conservanti, coloranti o additivi) che in quello della consumazione. Ad oggi, una qualsiasi degustazione di sake giapponese porta con sé delle piacevoli quanto insperate sorprese in fatto di aromi, sapori ed abbinamenti. E questo lascia ben sperare per nazioni (Italia per prima) dove il sake giapponese è ancora poco conosciuto oppure riservato ad ambiti ristretti e di elìte più che rappresentare – e qui condividiamo l’affermazione del guru americano del sake – una vera e propria bevanda alternativa nei ristoranti al pari di birra, vino, champagne.

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Chouchin con rappresentato il kangi di “sake”, “shu”.

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