Come si conserva il sake.

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Quanto dura una bottiglia di sake?

Oramai questa sembra la domanda più ricorrente che mi viene posta durante i corsi di formazione sul sake sia dai comuni consumatori che dai ristoratori.

Questa domanda di solito sottointende un delitto che dura da tempo, malcelato e di cui si e’ appena preso consapevolezza: quello di aver lasciata, dimenticata chissà da quanto, una bottiglia – regalata da qualche conoscente e nella maggior parte dei casi molto pregiata e costosa – in un angolo della cucina o del salotto, così come soprammobile accanto al tv o nella vetrinetta.

Diciamolo subito il sake, come qualsiasi fermentato alcolico, offre un certo margine d’azione purchè, ad un certo punto, si accetti l’idea di una sua evoluzione.  Nella situazione ottimale, non plus ultra, il sake andrebbe mantenuto al freddo (5°C) in frigorifero, e al buio, meglio se nella sua scatola o avvolto in un giornale. In queste condizioni controllate, la bottiglia di sake può aspirare a conservarsi per un periodo tra i dodici ed i diciotto mesi rispetto alla data di imbottigliamento riportata sull’etichetta della bottiglia. Questo in linea di massima. Eppure con una certa gradevole evoluzione nel gusto del sake. Chiaro che poi bisogna valutare di volta in volta, ogni tipo specifico di sake, il metodo di produzione e la sua evoluzione fuori dalla cantina (leggi: come è stato importato e mantenuto durante il viaggio e in magazzino). Il sake  pastorizzato, che rappresenta la maggior parte (99%) del sake in circolazione in Italia, ad esempio, offre una più agile conservazione, anche fuori dal frigorifero purchè a temperatura fresca e costante (in una cantinetta, per intenderci, va benissimo), ed in questo non si distanzia molto dal vino. Certo più cura e attenzione vi si dedica, miglior risultato si ottiene.

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Akitora Junmai e Junmai Ginjo

The last but not the least la bottiglia di sake non ha bisogno di microssigenazione e del contatto con il tappo,  va mantenuta in verticale. Quindi in verticale, al buio e al freddo e ..bevuta, non conservata come un cimelio od un soprammobile raro. Oggi buoni sake si possono acquistare anche in Italia e anche a Firenze, non c’è bisogno di aspettare il prossimo viaggio in Giappone.

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E invece quanto dura una bottiglia una volta aperta? Anche qui il margine varia sensibilmente a seconda del tipo di sake. In modo simile a quanto accade ad una bottiglia di vino, il sake comincia a respirare e quindi lentamente a mutare a contatto con l’aria. La risposta didattica riporta ad un periodo di due settimane. Ed è in effetti la risposta onnicomprensiva purché mantenuto in frigorifero e, possibilmente, al buio. Il sake, comunque, anche oltre questo periodo non va a male, solo che risulterà via via scomposto,  sbilanciato o allentato nei suoi aromi e gusti: insomma un sake dimentico delle sue origini.

Hakuryu

Hakuryu Jnumai Daiginjo, Junmai e Tokubetsu Junmai

A onor del vero, entrambe le domande di cui sopra alludono ad una difficoltà che va risolta in via pregiudiziale: come si può gestire quella bottiglia di sake che ho in casa? Bè, la risposta è duplice se vista dal consumatore neofita o da chi opera nel settore della ristorazione

Dal punto di vista del neofita, la preoccupazione su quanto possa durare una bottiglia di sake sottointende al fatto che il sake venga relegato o al fine pasto o ad una portata singola con l’alta probabilità che più della metà della bottiglia rimanga a futura memoria o finisca – che peccato! – come soprammobile. Ed invece, su una proposta di sake potremo costruirci un’architettura che abbia come fondamenta l’aperitivo e come architrave la pasta o un primo di stagione fino sù alla carne o pesce con verdure, per arrivare alla frutta! Il sake a tavola crea armonia ed una situazione sorprendente per gli astanti che, se abbiamo fatto bene le nostre ricerche negli abbinamenti carne/pesce/formaggi, saranno ben lieti di non far vedere l’alba al sake prescelto. Con buona pace e soddisfazione di tutti i presenti, sake incluso.

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Se, invece, la domanda su quanto si mantiene il sake è sollevata dai ristoratori, forse sarebbe il caso di fare un passo indietro e parlare di formazione del personale.

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Che il sake in sala vada proposto e vada suggerito e consigliato, è cosa scontata. Su come vada proposto, suggerito e consigliato non è tanto scontato in quanto prevede una conoscenza che spesso è ancora carente o latente. Peccato. E’ innegabile che attraverso una adeguata proposta del sake nel menu il ristorante guadagna terreno in fatto di stile e suggestioni oltre a riprendere le redini della propria autonomia e creatività. In Italia, negli ultimi anni, abbiamo assistito ad una sempre maggiore diffusione di competenze sul vino, una volta relegate solo agli addetti, ad opera di associazioni di settore che hanno promosso questa formazione ricevendone un buon feedback da utenti che decenni prima mai si sarebbero avvicinati al vino da questo punto di vista “attivo”. Quante volte al ristorante si presentano clienti che già conoscono le peculiarità del vino proposto nel menu? E allora perché non tentare di uscire dalla comfort zone del vino e non proporre un’offerta di sake nel modo giusto ovvero come esperienza alternativa e originale per i clienti abituali o come esperienza di ampio respiro per i nuovi clienti ? E’ chiaro che una qualche obiezione potrebbe essere sollevata dai clienti a meno che l’operatore di sala non mostri – uscendo appunto dal suo seminato – una sua competenza e suggerisca un senso di novità e scoperta nei confronti del sake. A livello di comunicazione si direbbe che l’operatore dovrebbe essere in grado cioè di gestire la facile obiezione relativa alla proposta originale del sake al posto del vino. Eppure questa sarebbe la scelta vincente. Vincerebbe cioè in questa visione un principio di affidamento da parte del cliente nei confronti dell’operatore di sala. Affidamento in cui dovrebbe entrare in gioco una professionalità dell’operatore di sala che, unico competente sul sake, tornerebbe così ad essere protagonista e guida, costruendo quella relazione umana che precede ed è humus essenziale per creare un’atmosfera positiva intorno al cibo oltre che una esperienza unica, professionale e originale nella memoria dei propri ospiti.

Il sake potrebbe rappresentare un’opportunità di autentico contatto e comunicazione tra l’operatore di sala ed il suo ospite, ma anche un momento di vera scoperta per quest’ultimo. Attraverso il sake si porta in tavola l’estremo oriente, la storia globale, i ricordi di un viaggio, le suggestioni di umami e le tradizioni locali. Attraverso il sake si valorizzano le materie prime italiane che ben si abbinano con questo fermentato. Attraverso il sake, infine, si potrebbe fondare un rapporto umano ed un buon ricordo che è importante creare intorno all’esperienza che si vive nei ristoranti. Il sake può ben aspirare ad essere un buon alleato di chi opera in sala laddove supportato dalla voglia di sorprendere e di voler comunicare oltre che dalla  curiosità di acquisire una competenza  nuova in uno dei corsi oggi disponibili anche in Italia. WSET docet.

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COME SCEGLIERE IL SAKE? *SECONDA PARTE*

GUIDA SERIA, MA NON TROPPO, AL SAKE GIAPPONESE: SUGGERIMENTI PRATICI PER UNA SCELTA RAGIONATA.

Approfondimento
A cura di G. Passione

Nella prima parte abbiamo già verificato come più che parlare di gusto del sake si debba prendere in considerazione il concetto di una moltitudine di gusti che i sake possono esprimere a seconda della creatività espressa dai produttori o piuttosto dalla tipicità geografica di cui il sake si fa emblema. Come fare a scegliere un sake sullo scaffale o dalla selezione di Firenzesake? Il prezzo certo è indicativo, eppure ci piace pensare che vi siano altri e più importanti criteri che possano guidare in una scelta più consapevole e ragionata. Vediamoli.

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LA STORIA DEL SAKE.

PARTE PRIMA: LE ORIGINI DEL SAKE.
Approfondimento
A cura di G.Baldini

La lunga storia del sake giapponese vanta origini secolari, anzi millenarie. Il sake giapponese come lo conosciamo oggi è il frutto di una storia che procede a tappe e disegna una evoluzione che porta alla bevanda fine e raffinata che viene riconosciuta come uno dei migliori fermentati contemporanei per tradizione, stile e qualità. Qui di seguito vediamo come il processo di produzione del sake sia stato nella storia il frutto di una sinergia e comparazione culturale con le nazioni del continente, ma anche di una progressiva conquista di cognizioni culturali e gastronomiche originali e proprie dei giapponesi nei metodi di trasformazione delle materie prime alimentari. L’evoluzione del sake segna in un certo senso il ritmo dell’acquisizione di una competenza specifica nei processi fermentativi nella tradizione gastronomica nipponica.

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Botti di nihonshu omaggio delle cantine al Tempio.
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COME SCEGLIERE IL SAKE.

GUIDA SERIA, MA NON TROPPO, AL SAKE GIAPPONESE: SUGGERIMENTI CRITICI PER UNA SCELTA RAGIONATA.

Approfondimento
A cura di G. Passione

Il Giappone nei suoi 377.000 km² di estensione è composto da cinque isole maggiori (Hokkaido, Honshu, Shikoku, Kyushu e Okinawa) suddivise in 47 prefetture in cui circa 1253 cantine, diffuse a macchia d’olio, ogni anno producono circa 400 mila kilolitri di sake che compongono una rosa di gusti e di aromi molto ampia e variegata. Perciò, si capisce bene che più che parlare di “gusto del saketout court sarebbe più corretto, e soprattutto meno riduttivo, parlare di gusti dei sake. Generalmente si parla di sake che hanno dei sentori che esprimono dei colori rosa, bianchi fino al verde chiaro e riportano al melone, al licthy, alla banana, all’erbaceo, ai boccioli di rosa e fiori bianchi; e poi si arriva a sake che facilmente si possono associare a tonalità calde arancione scuro autunnale, beige, giallo scuro, e che riportano a note fungine, di cereali, di nocciola, come di melassa, lieviti, marsapane… E di tutti questi aromi e gusti possono esservi infinite sfumature e composizioni a seconda della scelta del produttore nell’intraprendere una delle strade percorribili per proporre ai suoi estimatori un sake che sia riconoscibile a partire dal gusto.

…CONTINUA….

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INVITO ALLA DEGUSTAZIONE: AKITORA JUNMAI GINJO.

Approfondimento

A cura di G. Cataldo

In pellegrinaggio sull’isola di Shikoku.

Shikoku è la più piccola e meno abitata tra le quattro isole principali dell’arcipelago giapponese e significa letteralmente “quattro province” poiché su di essa furono edificate le antichissime città di Sanuki, Awa, Iyo e Tosa, così chiamate durante il periodo Edo e che dall’era Meiji, diventando prefetture, assunsero rispettivamente il nome di Kagawa, Tokushima, Ehime e Kōchi. L’isola di Shikoku è famosa per la sua grande biodiversità e per gli innumerevoli templi buddisti. Il pellegrinaggio, che ne tocca ben 88, pare sia stato istituito dal monaco Kūkai, fondatore della scuola buddista Shingon, fautore della teoria iniziatica dello honjisuijaku, inventore dei kana e che leggenda vorrebbe appaia tutt’oggi ai pellegrini lungo il cammino religioso di circa 1200 km.

Prefettura di Kochi…La prefettura di Arimitsu.

Kōchi, capoluogo dell’omonima prefettura, sorge alla foce del fiume Monobe che riversa le sue acque nella baia di Tosa, rappresenta un importante centro portuale per il paese ed è considerata la perla di Shikoku. La città è dominata sulle alture dal castello feudale: risalente al XVIII è uno dei pochi in tutto il Giappone ad essere scampato a guerre ed incendi, l’unico a mantenere tuttora intatta la fortezza e la casa signorile, oltre che la struttura originaria in legno, costituendo uno scrigno di inestimabili tesori e testimonianze sulla vita delle epoche che ha attraversato; di incomparabile bellezza è il giardino botanico di Makino, che merita assolutamente una visita in primavera, proprio quando avviene la fioritura dei pruni e dei ciliegi, e che è raggiungibile a piedi dal tempio di Chikuri-jin, altra grande attrattiva culturale assieme al  Sakamoto Ryoma Memorial Museum. Kōchi però non smette di sorprendere il visitatore… è la patria del famosissimo tosa goldfish, del mercato di Hirome con le sue prelibatezze in stile street food, dell’artigianato della carta Ino, delle bellissime spiagge che rappresentano un ritrovo per surfisti e inoltre vanta la vocazione di diventare la capitale del biologico del Sol Levante grazie alle sue innumerevoli varietà di cibo ed alla sostenibilità ambientale praticata.

Dalla cantina Arimitsu: un sake ricco e vibrante.

In questa terra straordinaria a sud del Giappone, spazzata dai venti e dalle mareggiate dell’Oceano Pacifico, si trova la storica cittadina di Aki vicina alla quale ha sede la sakagura che produce l’Akitora; Akitora è un nome molto evocativo….

…CONTINUA A LEGGERE…