Seimaibuai.

Riso raffinato.

Siamo quindi giunti al famosissimo seimaibuai ovvero al grado di raffinazione del chicco di riso. Per gli appassionati delle formule matematiche basti dire che il grado di seimaibuai si ottiene con una semplice operazione aritmetica che vede prima una divisione in cui a numeratore si trova  il peso del riso dopo che è stato molato e a denominatore il peso iniziale del riso, il risultato moltiplicato per 100 ci dà la percentuale ricercata. Il seimaibuai è uno dei dati che deve essere citato sull’etichetta della bottiglia di nihonshu e ci permette di distinguere le due diverse tipologie di sake giapponese, come vedremo fra poco. E’ un dato importante perché individua il grado di riduzione della massa a cui è stato portato il riso nella prima lavorazione, nel seimaiki, ed indica altresì la parte di riso che viene utilizzato. D’altro canto, un seimaibuai del 60% significa anche che il 40% del singolo chicco di riso non verrà usato per produrre il nihonshu. Attenzione ho detto che non verrà usato per produrre il nihonshu, ma questo non significa che verrà buttata. Via via che il seimaiki procede spedito verso la fine del ciclo dal riso viene ricavata una specie di farina (nuka) proveniente dagli strati di cui il chicco viene gradualmente spoliato. Prima di colore marrone e poi sempre più chiara, questa nuka, ricca di sostanze nutritive quali proteine e lipidi, trova diversi utilizzi agroalimentari e viene venduta dalle sakagura alle industrie di trasformazione oppure riutilizzata dalle stesse nei successivi raccolti come concime naturale.

Nuka

Quattro tipi di nuka

Ma torniamo al seimaibuai e alla nostra aritmetica. Indicando il grado di riduzione di peso e di massa che il chicco raggiunge a fine lavorazione implica altresì che minore sia tale percentuale maggiore sarà il costo di produzione in quanto per ottenere 1000 litri con un chicco di riso ridotto del 60% avrò bisogno di più riso. Logico. Da un altro punto di vista, il seimaibuai ci permette di distinguere nelle diverse tipologie di nihonshu presenti oggi sul mercato. Per cui avremo un Ginjo-shu se il riso sarà stato raffinato almeno fino al 60% e saremo in presenza di un Daiginjo-shu se su l’etichetta della bottiglia è riportato un seimaibuai (almeno) del 50%. Sottolineiamo, ancora una volta, come questa distinzione sia frutto del progresso tecnologico e delle innovazioni introdotte nel 1900 che hanno permesso un grado di precisione e di riduzione via via sempre maggiore. Ad oggi, infatti, in alcuni casi si può arrivare a produrre un nihonshu anche con seimaibuai del 35-38%, risultato questo impossibile da raggiungere con i mulini ad acqua di una volta. Ora al di là dei numeri, appare chiaro che, considerando anche i maggiori costi di produzione, la creazione di un Daiginjo-shu pretende di ottenere dei risultati di gusto ben diversi rispetto alla produzione di un Ginjo-shu. Così come è bene chiarire che una volta che si è intrapreso la strada per la produzione dell’uno non si possa poi invertire la rotta per produrre l’altro. Un ultimo dato più empatico, meno matematico, porterebbe a confermare che sarebbe più corretto parlare di raffinazione che di semplice riduzione. In effetti, quando nelle sakagura ci si trova a toccare con mano quei chicchi di riso lucidi e levigati, dopo il seimaiki, sembra di avere tra le dita delle piccole perle preziose. E non è difficile scorgere negli occhi di chi lavora da una vita nelle sakagura un certo orgoglio misto a rispetto per quel riso che tiene in mano.

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